Sonno Profondo
V T Leobloom

 



Don’t you think you’ve done enough? / don’t you think you’ve got enough? / well, maybe / you don’t think there’s time to stop, / time to lay your head down, tonight. / Let it wash away / all those yesterdays, / what are you running from? / Taking pills to get along, / creating walls to call your own, / so no one catches you? / drifting off and doing all the things, / that we all do / let them wash away / all those yesterdays.

Ed Vedder

Un giorno come tanti altri. - Finalmente a casa - pensò, mentre apriva la porta del suo appartamento. Era esausto. Non che gli fosse accaduto niente di diverso, la solita sequenza di facce, discorsi, rumori, azioni e reazioni. Solita corsa verso chissà dove, tutti verso la loro meta, tutti che sapevano dove andare, cosa fare, che dire. Tutti tranne lui. Fin da ragazzo si era sempre sentito diverso, anche se non si era mai riuscito a spiegare bene in base a chi, in base a che cosa. Non che fosse mai stato un disadattato - no, questo mai!- amava ripetersi fra sé e sé, un po’ per farsi forza un po’ per timore d’esserlo veramente ed illudersi dolcemente del contrario. Fuori luogo, ecco come si sentiva ogni volta che usciva da quella porta. Amava le persone, sebbene fosse convinto della disonestà di molti. Non capiva i comportamenti, i pensieri della gente che gli stava attorno, facevano tutto per un fine ed erano così sicuri di loro stessi da dargli quasi sui nervi, la loro vita era una continua escalation sociale alla rincorsa del successo. Glielo diceva sempre suo padre - il mondo là fuori è una giungla, solo i più forti sopravvivono -, glielo ripeté quando seppe della sua intenzione di andare a vivere da solo e provò a farlo desistere. Quella semplice verità era risuonata più e più volte alle sue orecchie come una minaccia ma non volle mai dare ascolto alle parole paterne. Non sarebbe stato uno sconfitto, non avrebbe fallito. Non stavolta. Suo padre non aveva mai creduto in lui, nessuno aveva mai creduto in lui. A dire il vero quasi nessuno aveva mai neppure provato a parlare con lui, amichevolmente, se non per scherno od interesse. Lo consideravano lo “strano” del quartiere. Ed alla fine ci si stava convincendo anche lui. Forse era anche per questo che anni prima aveva cercato conforto nelle dottrine orientali e nella meditazione, per imparare a dimenticare le cattiverie di cui lo facevano oggetto ed i malvagi epiteti. Non ricercava la noluntas, piuttosto un po’ di pace. La compenetrazione della realtà non faceva per lui, provava un livido livore per chi poteva raggiungere l’illuminazione, ciononostante preferiva sbarazzarsi di tutto ciò che avrebbe potuto distoglierlo dal suo viaggio interiore, chiudere gli occhi e svuotare la mente. Un modo come un altro per schiarirsi le idee. Alla sua maniera si considerava un visionario, - Oltre il razionale, lontano da ciò che gli altri vedono e credono sia reale e importante, raggiungere ciò che soltanto il mio spirito può vedere - questo era il suo mantra. Odiava il misticismo da palestra yoga, ma pure il fondamentalismo fanatico e l’intolleranza che sta dietro ogni religione. - Le religioni, metafore vecchie di mille anni, solo i nomi variano, forse aveva avuto ragione Jung ad inserirle in un inconscio collettivo, la sacra mano fratricida causa d’innumerevoli assassini è il solo legame ad accomunare l’intera umanità - rifletteva, e mentre la sua deduzione diveniva certezza egli annuiva mestamente a sé stesso. Non era ateo ma nemmeno un disperato nichilista pronto a credere ad ogni costo. Non sentiva il bisogno di aggrapparsi ad una fede qualunque che non partisse da sé stesso. Aveva letto Nietzsche in passato, ma non ne era stato influenzato. Non sentiva bisogno alcuno di dominare e quella sua volontà di potenza a volte gli pareva una mera giustificazione alla violenza ed al razzismo. La sua teoria del Ubermensch lo mandava su tutte le furie, non perché non la condividesse affatto bensì perché non avrebbe mai avuto il coraggio di applicarla alla propria vita, troppo debole di carattere per accettarne la sfida, troppo orgoglioso per rifiutarla pessimisticamente. Non conosceva i propri istinti eppure non vedeva nella propria morale un ostacolo alla loro espressione. Da quando avere una morale che lo sorreggesse era sbagliato? Forse era colpa della rigida educazione impartitagli da suo padre. Già, suo padre. Chissà cosa avrebbe pensato adesso di lui se solo lo avesse potuto vedere, se solo lo avesse potuto conoscere. Nulla, non avrebbe pensato proprio nulla. Non si può pensare quando si giace a sei piedi sottoterra e vermi schifosi pasteggiano con i tuoi bulbi oculari – immaginava inorridito, un istante dopo un brivido gli corse giù per la schiena e gli fece formicolare le braccia. Sapeva di avere fatto la fortuna di molti psicoanalisti con le proprie paranoie ed insicurezza, nonostante percepisse da sé quale fosse il suo vero problema. – Nessun sedicente luminare entrerà ancora una volta nella mia testa. Non sarò mai più la cavia di nessuno - . Solo ora che si trovava nel familiare soggiorno di casa si sentiva protetto. Come facesse a sentirsi al sicuro in una specie di anticamera dell’Inferno, zeppa di terrificanti maschere tribali, una congerie di oggetti inutili, avanguardia dada la chiamavano, comprati per corrispondenza e spacciati per arte, insieme con scadenti riproduzioni di quadri surrealisti regalo di un artista bohemien viandante di città, non è dato saperlo. Aveva sempre rifiutato l’amore. Credeva di essere il solo al mondo ad essere privo di anima, sosteneva che l’unica compagna della propria esistenza fosse la solitudine, la sola che non avrebbe potuto reprimere, giudicare e biasimare la sua libido. Aveva sempre rifiutato l’amore. Non per rimozione inconscia bensì per consapevole scelta; o almeno, tali erano le parole che usava quando qualche vicina investigava indiscretamente sulla sua vita privata. In realtà egli sapeva che non sarebbe stato in grado di sostenere il dolore dell’abbandono; - molto più semplice reggere il peso dell’assenza -. Aveva sempre rifiutato l’amore. Le pulsioni sessuali che pur sentiva erano compensate dalla musica, dal suono del suo amato pianoforte. La magia creata dall’armonia era uno dei rari momenti in cui si sentiva parte di un qualcosa di più grande ed incommensurabile. L’estasi che provava quando le corde vibravano, la frenesia con cui le proprie mani scorrevano sui tasti, l’impeto con cui la melodia risuonava erano il suo amplesso. Si muoveva attraverso il minuscolo appartamento con passo lento ma sicuro, mosso da una consuetudine nei movimenti che lo rendeva simile ad un automa. Notò che qualcuno lo stava osservando dalla finestra. Era lui stesso, la propria immagine riflessa come in uno specchio, pallido ed emaciato com’era diventato, neppure suo padre sarebbe stato in grado di riconoscerlo. Aveva il suo stesso aspetto, forte e virile, sebbene la scheletrica magrezza lo facesse maggiormente simile ad un appendiabiti che ad un essere umano. Lo sguardo no, il suo non possedeva quella antica fierezza presente in suo padre, un uomo tutto d’un pezzo, suo padre. Uno che si era fatto da sé, aveva affrontato valorosamente due guerre, senza un briciolo di paura nel cuore. Dolore, quello sì, incontrastabile e sordo, quando un inguaribile malattia erose giorno dopo giorno il suo corpo massiccio e se lo portò via in una calda mattina di giugno. Non riuscì mai a piangere per lui, né a perdonarlo, per quell’addio lungo e silenzioso a cui l’aveva costretto. I conati di vomito che salivano per l’esofago erano un riflesso condizionato. Ormai ci aveva fatto l’abitudine, quelli arrivavano veloci e inesorabili, gli stringevano la gola in una morsa acidognola non appena toccava quel maledetto flacone, e non poteva farci niente. Erano il modo in cui il suo organismo si difendeva autonomamente, il modo in cui il suo corpo continuava a mandare segnali d’aiuto. Ascoltando alla radio quanto era accaduto nel mondo quel giorno preparava in un bicchiere una soluzione medicinale con mani esperte. Mentre si sedeva sulla sua poltrona preferita, la sola che possedeva, si sentì d’un tratto stanchissimo non solo nel corpo ma pure nell’anima. Stanchissimo e vecchio, così vecchio da fare diventare fantasmi i ricordi della sua adolescenza, nonostante fossero passati soltanto una decina d’anni. Immagini confuse cominciarono a scorrergli davanti agli occhi, lui stesso era sempre più confuso ma felice, già sentiva un rassicurante torpore diffondersi attraverso il proprio corpo. Si stava addormentano. Composizioni oniriche si formavano nel suo cervello, immagini ributtanti e lussureggianti paesaggi nascevano fra i suoi pensieri. Es era finalmente libero. Associava illogicamente visi, suoni, voci e profumi. Memorie nascoste chissà dove, talmente nitide da sembrare reali, sin troppo reali, movendosi si trasformavano in strada e lo conducevano senza alcun moto verso un profilo divenuto amico… - il mondo là fuori è una giungla, solo i più forti sopravvivono –







Giovane suicida trovato senza vita nella propria abitazione

Probabile causa della morte avvelenamento da barbiturici.
Il corpo di L.B., in avanzato stato di decomposizione, è stato trovato questa mattina da uno zelante postino, insospettito dall’ingente quantità di posta non ritirata. I vicini, il datore di lavoro, i conoscenti, addolorati, ricordano il giovane con affetto: “Era una brava persona”, “uno un po’ strano, ma mite e gentile”, “ Mi era simpatico anche se non lo conoscevo bene”. v.t.
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